Esiste un’irresistibile attrazione fra il gioco e la letteratura, forse perché entrambi si muovono fra finzione e simulazione, ruoli e maschere, frequentano libertà e creatività , sono equilibrio di rappresentazione e interpretazione. Il lettore, come il giocatore, si muove in una sospensione del tempo e dello spazio, affrancato dalla vita reale, partecipe di una narrazione fantastica che richiede tuttavia un grado uguale – o talvolta maggiore – di immedesimazione. Originalità , inventiva, illusione, obbligazione di convenzioni a volte assurde, a volte ricche del fascino dei simbolismi più raffinati. E precisione algebrica: traiettorie imprevedibili ma sempre esatte disegnate dalle bilie sul biliardo del Bar Marco e dalla scrittura rapida, netta, dal periodare essenziale di Morena Fellegara. Ma l’azzardo aggiunge le vertigini dell’eccesso e le profondità dell’abisso, il piacere che distilla adrenalina, l’ossessione e la perversione. Nell’universo ludico di Cecco Angiolieri, accanto alla luminosa stella della sfida dei dadi risplendono gli astri delle donne e del vino: “Tre cose solamente m’ènno in grado, le quali posso non ben ben fornire, cioè la donna, la taverna e ’l dado: queste mi fanno ’l cuor lieto sentire”. La medesima febbre che tormenta gli amanti, la stessa ebbrezza che trabocca dai calici. Così sarà per il pirandelliano Mattia Pascal che, in un crescendo rossiniano, ai vortici della roulette del Casinò di Montecarlo affida i numeri e la sua stessa biografia, così per Francesco che sulla ruota di Genova punta il suo destino. Ingaggia una rischiosa partita con la sorte sua e degli altri: il denaro richiama sempre biscazzieri truffaldini, bari avventurieri, squallidi usurai e, come nella roulette russa, qualcuno si perde per sempre. Il finale della partita giunge inesorabile e allora tutti, anche i giocatori più incalliti, dovranno scoprire le carte. Perché nell’Olimpo degli Dei la Fortuna è bendata, fra i demoni degli uomini non sempre accade.
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