Gli Hollow Echoes sono una band nuova delle nostre pagine e il 24 maggio hanno pubblicato il loro primo EP. Quattro brani rock-gotici che raccontano il tempo nelle sue varie forme. Racconti intimi di un passato o riflessioni sul tempo che scorre.
“Hollow Echoes” è un concept EP che non voleva essere un concept EP, così la band lo definisce. Tutto gira attorno al argomento del tempo eppure si tratta di una scelta casuale. Non era stato studiato come EP sul tempo, tutt’altro. Il flusso di pensieri del gruppo ha comunque portato a questo risultato e non posso che esserne felice. Sì perché gli argomenti non sono soliti e sono trattati in una maniera diversa rispetto agli altri. Anche quando si parla di amore comunque sia non li si fa mai in modo banale.
Ho detto che gli Hollow Echoes sono rock… più o meno, o almeno non sono il rock alla Maneskin che va di moda in questo momento. Loro sembrano una band del passato, degli anni ’70, che rimescola il rock, ai synth e all’elettronica. Un po’ Pink Floyd e un po’ nessun altro, perché in fondo il sound degli Hollow Echoes può ricordare vagamente altre band, ma non è uguale a nessuno.
TRACK BY TRACK
Your Smell Was The Drug
L’inizio è descrittivo, soffuso, a metà fra un brano elettronico ed uno post-grunge, e sfocia pian piano in un’apertura più aggressiva che coincide con una presa di coscienza: quell’odore è come droga. I bassi la fanno da padrone, a simboleggiare la parte più istintiva e primordiale in quest’inizio, quella sensuale. Man mano che entrano le chitarre il brano si apre, diventando sempre più aggressivo, sfociando in un riff di chitarra dissonante. Qui la voce diviene quasi metallica, tirando le somme ed esplicitando la voglia di voltare pagina. Alla fine il brano si chiude con un refrain dove protagonisti sono chitarra e synth, oltre alle voci nella testa che dicono di volersi liberare del suo odore.
Counting The Days
Un vibrafono è l’inizio di una sorta di trip che rassomiglia al campanello di una casa un po’ vecchiotta. Un trip per la noia indotta dall’isolamento, o dalla paranoia. Il campanello viene interrotto dalle note staccate, ripetute ossessivamente, creando immediatamente un contrasto.
Il risultato è un 4/4 stortissimo quasi prog metal con basso, chitarra e batteria all’unisono in cui il vibrafono dissonante continua la sua cantilena.
Una dicotomia fra la quiete e la tempesta. Nessun numero è casuale, la struttura dell’intera strofa e delle ripetizioni ha il numero 3 come misura fondamentale (gli stacchi degli strumenti son 3 volte, e ogni giro è composto da 3 battute).
Questo per due motivi: il primo risiede nelll’unicità di quella situazione. Viene riflessa in musica con strutture diverse dal solito 4, assau più comune nella maggior parte delle canzoni.Il secondo è perchè il lockdown è stato a marzo, che è il terzo mese dell’anno. Il brano va avanti fra echi di musica elettronica, atmosfere dark ed una parte centrale orchestrale, culminando in duetto fra un assolo di synth che pare urlare ed uno di chitarra quasi fusion. La fine è speranzosamente ambigua.
So Many Hours
Il brano più vecchio, a detta della band. Ispirato all’opera teatrale “Aspettando Godot”, il testo fa emergere un senso di apatia totalizzante. Tutto è fermo, e muoversi o agitarsi sembrano azioni vacue, che non portano a nulla. Ancora, temi centrali sono la paura dello scorrere del tempo senza riuscire a goderselo, il crogiolarsi nel nichilismo, e la noia, acerrima nemica: la paura di annoiarsi, nell’individualità cieca del mondo moderno. Nostra e degli altri. Nessuno va, nessuno viene, non succede niente – Per usare le parole di Samuel Beckett.
Musicalmente il brano è un mix di musica elettronica, rock e persino trap, con delle interessantissime chitarre usate spesso in maniera percussiva e sperimentale. Da segnalare anche la linea di basso: cupa e carica di groove, traina tutto il pezzo.
If You Are Kronos (You Suck Young Blood)
Questo brano si rifà al dipinto di Goya “Saturno che divora i suoi figli”. Il brano ha tre livelli di lettura. Il primo è il più semplice.
Kronos (o Crono, o Saturno) è il titano del Tempo (fra le altre cose). Quindi il brano rappresenta la paura del tempo, visto come un fagocitatore di attimi, indifferente alla sorte degli esseri viventi che avvizziscono di giorno in giorno, mentre siede sul suo trono. E magari non sapendone nemmeno il perchè, in fondo, annegando esso stesso in un mare di insensatezza. A fare da contrapposizione a quest’immagine è la resistenza, personale o collettiva. Quindi far mangiare la pietra al tempo è non avere rimpianti, l’invito a godersi ogni attimo. Carpe Diem, in due parole.
Il secondo livello di lettura è “semplicemente” la riproposizione dell’avvenimento presente nella mitologia greca. Crono ha paura che uno dei suoi figli lo spodesti, quindi comincia a mangiarli uno ad uno, fino a quando non fallisce nel suo intento mangiando, per l’appunto, una pietra al posto di Zeus. E venendo poi sconfitto e spodestato da egli stesso.
Il terzo livello di lettura è più personale: il rapporto conflittuale con la figura paterna. Musicalmente il brano è una sorta di valzer sperimentale che ha due protagonisti, mai resi espliciti. Ogni protagonista ha il suo punto di vista sulla vicenda. La cantante modula la sua voce sulla base dei due personaggi: quando ha un tono più intimo e riflessivo è Zeus, quando è aggressivo e magniloquente rappresenta Crono. La musica suona epica, arricchita da paesaggi sonori foschi, archi decadenti e poliritmie nevrotiche, fino all’epilogo in cui Crono mangia la pietra. La descrizione musicale è affidata alle sole voci a cappella, che s’intrecciano fra loro disegnando una particolarissima armonia.