Se c’è un concetto che sintetizza Altitudine dei novagorica è la tensione: tra il desiderio di elevarsi e la condanna a restare imprigionati nelle proprie fragilità. Con un sound che oscilla tra il post-punk e il post-hardcore, il disco è un continuo oscillare tra esplosioni sonore e momenti di riflessione, tra testi taglienti e melodie capaci di scavare a fondo nell’animo dell’ascoltatore.
L’album si apre con Piromani, un brano che incarna perfettamente l’anima del disco: il fuoco è metafora dell’incapacità di adattarsi, della paura di fidarsi e di un dolore che divora tutto, lasciando solo cenere. La chitarra taglia come una lama, la batteria incalza, mentre la voce si alterna tra rabbia e rassegnazione. L’urgenza emotiva non si placa con Carne e saliva, una traccia che mette a nudo il bisogno di riconoscersi in un altro, di trovare un punto fermo nella tempesta delle relazioni. Il testo è brutale, diretto, mentre la musica costruisce un crescendo che esplode in un urlo disperato.
L’atmosfera si fa ancora più opprimente con Le formiche, un brano che racconta la solitudine dopo il caos della notte, il momento in cui ogni eccesso lascia solo il vuoto. Qui il sound si fa più ipnotico, le chitarre oscillano tra quiete e distorsione, riflettendo l’altalena emotiva di chi cerca di sfuggire al proprio riflesso. Il rimpianto diventa protagonista in Occasioni perse, una canzone che gioca sul contrasto tra sonorità quasi leggere e un testo che lacera. È l’inno di chi si porta addosso il peso di tutto ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, mentre la melodia sembra danzare su macerie emotive.
Dopo questo vortice, Le ore piccole introduce una pausa apparente: è un brano sospeso tra sogno e realtà, un inno alla fragilità che evoca le Notti bianche di Dostoevskij. Qui la band si lascia andare a una scrittura più evocativa, quasi cinematografica, che diventa il ponte perfetto per La prima volta. Il tema è quello dello sguardo: il primo che fa innamorare, quello che si trasforma con il tempo, quello che diventa un’ancora nelle tempeste della vita. C’è una dolcezza sottile che si mescola a una sottintesa malinconia, come se ogni gesto portasse in sé già il seme della sua fine.
Ma la dolcezza viene spazzata via da Cannibali, un brano che parla di desiderio e di autodistruzione. Qui i novagorica mostrano il loro lato più feroce, con un ritmo serrato e un testo che riduce l’amore a un gioco di dipendenza e dominio: “Incontrarsi, implodere, ripetere”. Peggiore prosegue su questa linea, amplificando ancora di più l’ossessione per il superamento di ogni limite, per il bisogno di sentirsi vivi a qualunque costo. Il suono si fa tagliente, la voce è esasperata, e il risultato è un brano che lascia un senso di smarrimento e vertigine.
Nel finale, il disco cambia pelle. Ottobre si trasforma in un canto di preghiera, una richiesta di redenzione che però si scontra con la brutalità della realtà. La tensione cresce con Nakba, forse il brano più politico e doloroso dell’album. Qui la band affronta senza filtri la tragedia del popolo palestinese, con una scrittura che non lascia spazio a compromessi. La musica diventa un grido, uno schiaffo, una ferita aperta che si rifiuta di cicatrizzarsi.
E poi arriva Altitudine, la chiusura perfetta per un album che è stato un continuo saliscendi emotivo. Il brano è il punto d’arrivo, ma anche l’inizio di qualcosa di nuovo: parla della ricerca di un significato, della fatica del cammino e di quel sottile confine tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. È una vetta raggiunta con il fiato corto, con il corpo che porta ancora i segni della salita, ma con gli occhi puntati su un orizzonte ancora da esplorare.
Con Altitudine, i novagorica firmano un album che lascia il segno, un disco che non fa sconti e che riesce a trasformare ogni brano in una ferita che non smette di pulsare.